Paranoid Park: l’attesa tra lirismo e ipnosi

Paranoid Park: l’attesa tra lirismo e ipnosi

Acclamato come il capolavoro di Gus Van Sant, Paranoid Park si inserisce a pieno titolo fra quei film che rappresentano “un unicum” nel panorama della cinematografia internazionale. Immagini, suoni, colori in grado di esprimere un qualcosa che solo la poesia sarebbe in grado di fare. Lirismo non è la parola esatta, ma è quella che più si avvicina per provare a descrivere l’undicesimo lungometraggio del regista di Portland.

La trama, tratta dal romanzo di Nelson Blake, è abbastanza semplice: un giovane skater di Portland, Alex, causa accidentalmente la morte di una guardia ferroviaria, nei pressi del celeberrimo Paranoid Park; ora, Alex dovrà fare i conti non solo con le conseguenze esterne di quanto accaduto, ma soprattutto con se stesso, con il suo senso di colpa, con la paura, l’angoscia (la paranoia…) che rimane intrappolata nel suo stomaco, senza riuscire ad avere una voce per esprimersi, per liberarsi, per uscire. Ma, come per una poesia, ciò che più conta, non è quello che il film racconta, ma come lo racconta. Se, infatti, il romanzo di Blake ha a disposizione pagine e pagine di parole per scandagliare nel profondo l’animo turbato di un sedicenne, Van Sant può soltanto rimanere sulla superficie delle cose (e, come diceva Calvino, “la superficie delle cose è infinita”), nel senso che non può penetrare all’interno dei suoi pensieri (ad eccezione della lettera scritta e poi bruciata), o almeno non vuole, e si limita a fissare, dall’esterno.

Ed ecco che traspare l’angoscia del protagonista e, nello stesso tempo, dello spettatore che si sente soffocato da quello che sta vedendo, che vorrebbe scappare, vorrebbe che quest’angoscia sparisse, ma nello stesso tempo rimane incollato alle immagini del film. Ipnotizzato. Incapace di sottrarsi alla visione di interminabili passeggiate, intensi piani sequenza, immagini fisse, primissimi piani, strumenti in grado di far rivivere nello spettatore la paura e l’attesa del giovane protagonista. É nella durata, nel non voler togliere nulla al reale che Van Sant costruisce i suoi picchi di tensione emotiva. Ne è un esempio la scena della doccia, emblema del desiderio di purificazione e, nello stesso tempo, dell’ammissione di “colpa” di quanto accaduto, in cui le immagini rallentate, il rumore dell’acqua e la luce travolgono lo spettatore dentro ai silenziosi pensieri del protagonista. Ma lo stesso discorso lo potremmo fare con i primissimi piani di quest’ultimo, quando, per esempio, parla con il detective. Quello che davvero interessa, o dovrebbe interessare, lo spettatore, quindi, non è il sapere se Alex sarà scoperto oppure no, ma è l’attesa, o meglio il piacere e, nello stesso tempo, la sofferenza di tale attesa.

Stefano Pandolfini

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